Al piano nobile della letteratura

recensione di Michele Trecca

«Sono mesi che esploro la mia famiglia, numerosa come un popolo, varia come una congrega senza governo… Nella mia testa passa un romanzo grande come una vita. Una folla di personaggi preme, vuol farsi raccontare, ma non c’è spazio.» E invece no, in Piano nobile Simonetta Agnello Hornby ha trovato spazio e voci per raccontare alcune storie della propria famiglia e tante altre che «sbummicavano di fiori» nella sua memoria.
Piano nobile è il secondo capitolo della saga avviata con il fortunatissimo Caffè amaro: comincia (1942) dove l’altro finisce (i bombardamenti di Palermo del ’43). In questa staffetta torna di sguincio la protagonista del precedente romanzo (Maria Marra, attraverso la figlia, Rita) ma al centro della scena è la famiglia dei baroni Sorci. A partire dal patriarca, Enrico. Il romanzo comincia con lui. La citazione d’apertura è una delle sue tante riflessioni sul letto di morte. Enrico Sorci è un personaggio della statura letteraria del principe di Salina. Nella sua pienezza di vita racchiude un mondo, quello della nobiltà feudale dei ricchi latifondisti signori della terra. Un mondo, una civiltà: alla fine, come lui, rappresentativo anche in questo.
Attorno a Enrico Sorci, nel palazzo di famiglia, una folla di figli, nuore, nipoti, parenti e personaggi vari: tutti consapevoli che dopo di lui nulla più sarà come prima. Grande pregio di questo nuovo romanzo di Simonetta Agnello Hornby è il dinamismo prospettico della narrazione, nient’affatto bloccata nell’istantanea di un momento. Dopo quella iniziale del barone morente, nei vari capitoli di Piano nobile si alternano le voci del figlio bastardo Peppe Vallo, del primogenito Cola, della nuora Laura e, quindi, dei nipoti Mariolina, Rico e Carlino. In ogni capitolo, storia e punto di vista, nella loro interazione e nel loro insieme, fra passato e presente i bagliori di un tempo nuovo: la migrazione degli italiani dal fascismo, a cominciare dai siciliani, i primi ad essere investiti dall’avanzata alleata, sostenuta, neppure troppo velatamente, dal patto scellerato fra mafia e servizi segreti americani.
Verso il mondo che verrà i Sorci avanzano in ordine sparso fra fervore, ansia, speranze, traffici, paura, rifiuto e persino anatema. Che ne sarà quindi di quell’unità della famiglia, del suo potere e della sua ricchezza, da sempre valori assoluti? Un tempo Enrico Sorci, figli e nipoti, una trentina di persone, consumavano ogni giorno tutti i pasti insieme nel palazzo di famiglia. Per incrementare il patrimonio combinavano matrimoni d’interesse. Per non intaccarlo con la dote uccidevano le figlie femmine non volute con la pratica del «panno freddo» e poi dichiaravano che erano «morte alla nascita». Per salvaguardare reputazione e prestigio formalizzano per iscritto un accordo di convivenza e di fatto accettano fra le mura della casa comune una relazione fra cognati con relativo figlio di due padri, fratelli, peraltro molto legati fra loro.
Che fantastica storia è quella dei Sorci: nella sua straordinaria complessità, nel bene e nel male, non c’è solo la Sicilia ma tante delle infinite variabili dell’animo umano: generosità e ferocia, tradizione e modernità, raffinatezza e meschinità, erotismo e amore, religiosità e fanatismo, cosmopolitismo e provincialismo. Palazzo Sorci ha lo splendore di una piccola reggia con – almeno per noi – la maestà assoluta di Laura de Nittis, la moglie fedifraga, e suo figlio Carlino. Due personaggi che aprono il cuore alla speranza. Nella storia d’amore di Laura c’è tutta la dolcezza e la consapevole, commovente e quieta intensità e dedizione di una straordinaria passione. Suo figlio Carlino è una sorta di eroe dei due mondi, capace di imporre la forza avventurosa della sua giovinezza, il suo talento e le proprie coraggiose scelte controcorrente sia a Chicago, dove andrà a scoprire l’America, quanto in famiglia e nell’alta società palermitana.
In Piano nobile la maestria narrativa di Simonetta Agnello Hornby ha raggiunto vette di eccellenza per ricchezza d’intarsio, rigore di documentazione storica, sapienti guizzi lessicali di siciliano e soprattutto per quell’affettuoso disincanto che le consente di entrare con sguardo fermo e lucido nel vivo dei sentimenti e delle più laceranti contraddizioni umane e sociali.

Michele Trecca

La Gazzetta del Mezzogiorno, domenica 8 novembre 2020

Lascia un commento